CRISI
Devo iniziare con una premessa: intendo chiedere scusa al mondo intero per ciò che ho fatto.
Non fraintendetemi, scuse e pentimento sono due cose differenti. Difatti se tornassi indietro
rifarei tutto identico, senza cambiare nulla. Anzi, lo farei meglio.
Ad ogni modo mi sento in dovere di chiedere scusa perché sono a conoscenza della sofferenza
che ho arrecato. Non sono stupida, questo ormai lo sanno tutti.
Ma facciamo un passo indietro e mettiamo un po’ d’ordine.
Ebbe inizio una mattina di primavera. Il sole si affacciava timido sul mio terrazzo mentre
praticavo yoga cullata dal vento e dal canto degli uccelli. Ci fu un attimo in cui mi parve che la
natura mi stesse parlando, come se per magia fossi entrata nel mondo delle favole.
Concentrazione e meditazione si mescolarono in perfetta armonia con ciò che avevo intorno.
So che sembrano frasi da guru, ma vi assicuro che fu così.
Poi accadde.
Mi sentii svuotata di tutto quello che mi portavo dentro: gioie, dolori, isteria, nervosismo,
eccitazione, pragmatismo e diverse carie dentali.
Ero una tutt’uno con l’universo e stavamo comunicando.
Qualcosa si sbloccò e d’un tratto ebbi paura come una bambina il primo giorno di scuola.
Aprii gli occhi e uno strano formicolio alle pareti del cranio si manifestò in tutto il suo orrore.
Scariche elettriche. Ecco cos’erano.
Rientrai in casa, barcollando tentai inutilmente di comporre il numero unico di emergenza sul
mio smartphone. Lo schermo nero non lasciava dubbi, il telefono aveva deciso di porre fine alla
sua misera esistenza proprio in quel momento.
Mi infilai un abito decente, un paio di scarpe abbinate – non si sa mai chi puoi incontrare quando
vai in città – e decisi di recarmi in ospedale con la mia auto.
Non appena fui davanti al volante della Toyota, altre scariche si arrampicarono su per il mio
cervello come serpi velenose pronte a mordere. Aspettai qualche istante credendo d’impazzire,
poi cessarono. Schiacciai il pulsante d’avviamento, ma il quadro rimase spento.
Pure la macchina, pensai. Questa è iella.
Ecco, in quel momento ero talmente spaventata da non fare collegamenti opportuni.
Me ne sarei pentita.
Presi l’unico altro mezzo che avevo a disposizione nel garage, una bicicletta graziella con tanto
di cesto porta pacchi in fronte, e mi diressi verso il centro. L’aria profumava di novità e il sole
stava cominciando a scaldare per bene questa nostra bella terra. Mentre pedalavo non ci furono
altre scariche.
Lasciai la bici senza lucchetto – confidavo nel buon umore del prossimo – davanti all’ingresso
del pronto soccorso e mi misi in coda all’accoglienza. La gente che stava male era accasciata
ovunque: sulle sedie di plastica, sulle barelle, appoggiata alle pareti. Un ragazzino col polso rotto
mi guardò corrucciato e gli abbozzai un sorriso.
Fu in quel momento che venni investita da una nuova ondata di scariche elettriche e questa
volta il collegamento lo feci eccome.
Tutti i monitor appesi alle pareti diventarono neri e dall’interno del pronto soccorso giunsero
lamenti di stupore e rabbia. Le persone intorno a me – che ovviamente stavano tutte utilizzando
lo smartphone per ingannare l’attesa – sollevarono la testa e si guardarono in giro spaesate.
I loro schermi erano diventati tutti neri.
Così ebbi la certezza di essere diventata un mostro.
Quel giorno morirono circa 17 persone per colpa del black-out in ospedale. E tante altre si
sarebbero, ahimè, aggiunte alla lista. Nella mia vita non ero mai stata un genio, ma qualcosa nel
mio cervello stava crescendo. Qualcosa che, ne ero certa, il mondo non avrebbe mai compreso
fino in fondo e che mi convinse a scappare lontano e a trovare rifugio nel più impensabile dei
luoghi: la mia mente.
Non uscii di casa per una settimana, nessuno venne a bussare alla mia porta. Non potendo usare
apparecchi elettronici non ero neanche sicura di cosa avessero riportato i giornalisti sul
fenomeno accaduto in ospedale. L’avrei scoperto solo in seguito, quando decisi di rivelarmi al
mondo.
Lontano dalla tecnologia, al contatto con la natura, i fulmini del cervello diminuirono fino a
sparire del tutto.
Poi venne a trovarmi mia sorella Denise, e insieme prendemmo una decisione difficile.
Ci saremmo spostate di città in città, di paese in paese, porta a porta. Avremmo portato il mio
dono a tutto il mondo muovendoci a cavallo se necessario. O in barca a vela.
Lo scopo era semplice: eliminare il superfluo per giungere al cuore dell’umanità.
Ci vollero anni.
Anni di sofferenza e disperazione, di persone che morivano o si uccidevano o restavano isolate.
Ma ogni nuova alba che vedevo sorgere era sempre più splendente e ogni soffio di vento grato.
Credo fortemente tutt’ora che l’evoluzione sia la chiave per l’avanzamento della specie, ma forse
non ci siamo mai fermati a pensare alla direzione che dovrebbe prendere.
Forse le mie scariche elettriche non state altro che un dono del cielo. Magari lo scoprirò a breve,
dato che mi resta solo qualche giorno di vita.
Molto probabilmente l’essere umano ricostruirà tutto ciò che si spense per colpa mia, ma voglio
andarmene con la convinzione che lo farà prendendo una via differente. Più saggia, più
consapevole. Lascio queste poche righe scritte a matita a Barbara, figlia di Denise, la mia parente
più prossima. L’unica ancora in vita dopo l’inverno nucleare. Spero con tutto il cuore che riesca a
trasmetterle ai suoi figli che a loro volta le diranno ai loro figli, così che il mondo capisca perché
ho agito da mostro.
Ora ho bisogno di riposare. Mi metterò sul dondolo che abbiamo costruito di recente con gli
scarti del vecchio mondo. Starò lì a rileggere un’ultima volta il mio libro preferito, facendomi
cullare dal vento come solo gli alberi sanno fare.
Marta Fisher
Territori del Sud, 5 Aprile 2069