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NONNA NINJA

Lunga vita alla narrativa!

NONNA NINJA

Presi posto sulla panchina, sorseggiai il caffè d’asporto e mi asciugai la fronte bagnata
di sudore. La giornata era appena cominciata, ma si preannunciava tra le più calde della
stagione. Piazza San Carlo era viva. Persone che andavano a lavoro, altre che
bazzicavano tra i negozi approfittando dei saldi estivi, altri ancora passeggiavano senza
meta giusto per il gusto di farlo.
Ero arrivato a Torino da pochi giorni, ma avevo già imparato ad apprezzare le sue
varie sfaccettature, le sue incantevoli piazze, gli immensi parchi e i portici eterni.
Era un peccato doverla distruggere.
Finii il caffè e mi accesi una sigaretta. Mi rigirai il piccolo disco metallico tra le mani.
Avevo ricevuto le coordinate qualche ora prima, quindi dovevo entrare in azione. Mi
alzai dalla panchina e mi diressi verso la statua al centro della piazza. Il monumento
dedicato a Emanuele Filiberto di Savoia sembrava scrutarmi con aria sospetta. Ero
venuto a sapere che simboleggiava la pace in quanto il cavaliere trattiene il cavallo per
le redini e rinfodera la spada.
Cosa ne sapete voi della pace? pensai avvicinandomi.
Controllai il radar che tenevo allacciato al polso. Nessun dubbio, il posto era quello, le
coordinate non sbagliavano.
Fingendo di dovermi allacciare una scarpa, mi chinai e applicai il disco metallico ai
gradini di cemento della struttura. Il dispositivo si integrò perfettamente e si illuminò
tre volte.
Il conto alla rovescia era cominciato. Ora non dovevo far altro che contattare la madre
e attendere l’estrazione.
«Signore, non può stare così vicino al monumento», disse una voce alle mie spalle.
Mi voltai. Una vecchietta bassa e gobba mi fissava di traverso. Viso corrucciato, rughe
profonde quanto trincee e occhiali sbilenchi, quella donna pareva una caricatura
fumettistica.
«È sordo per caso?» continuò la donna. «Voi turisti non fate altro che ficcare il naso e
poi finisce che rovinate i monumenti e fate sporcizia e poi finisce che per rimettere a
posto ci alzano le tasse a noi pensionati.»
Agitava un bastone di legno scheggiato e consunto. Molto vintage.
Cercai di allontanarmi, ma quella non mi mollava.
«Ho visto tutto. So cos’ha fatto. Era seduto sulla panchina a bere il caffè e fumare. Poi
si è alzato e ha commesso due errori. Primo: ha gettato la cicca per terra da vero
maleducato. Tanto lo stipendio degli spazzini lo paghiamo noi con le tasse, o no?
Secondo: ha imbrattato il monumento con quel dischetto di metallo. Cos’è? Una nuova
moda di voi giovinastri? Non vi bastano le bombolette spray e i monopattini?»
Grondavo sudore dal caldo e dal nervoso. Diverse persone si stavano avvicinando per
capire cosa stesse succedendo e poteva diventare un grosso problema. Mi era sembrato
che nessuno mi osservasse, ma non avevo fatto i conti con la nonna ninja.
Il radar sul polso vibrò e apparve la scritta: COORDINATE PER L’ESTRAZIONE
INVIATE. TEMPO STIMATO 10 MINUTI.
Non potevo più cazzeggiare.
«Mi scusi, signora», tagliai corto. «Raccolgo subito la cicca, non intendevo essere
maleducato.»
Arrivarono due uomini, uno in giacca e cravatta e l’altro in bermuda e maglietta.
«Va tutto bene?», domandò l’uomo incravattato.
«Questo qui ha imbrattato il monumento», disse la vecchia arricciando il naso.
Sembrava soddisfatta di aver attirato l’attenzione.
«Come, prego?» domandò l’incravattato.
«No», dissi. «C’è un equivoco. Ho solo buttato a terra una cicca, ma ora la raccolgo così
siamo tutti contenti.»
«Moderi i termini, non c’è bisogno di scaldarsi tanto!»
Non ne potevo più, ma la nonna non aveva ancora finito con me. Prese per mano
l’incravattato e lo condusse vicino alla statua. L’uomo in bermuda rimase accanto a me
per evitare che me la filassi.
Otto minuti.
«Che diavolo è sta roba? Mai visto niente di simile prima», disse l’incravattato
osservando il dispositivo.
«Non guardate me», dissi. «Era già lì quell’affare e non ho la minima idea di cosa sia.»
«Bugiardo!» disse la nonna. «Sarò vecchia, ma con questi occhiali ci vedo benissimo. È
un vandalo e nient’altro. Chiamate la polizia!»
«Ora stiamo esagerando», dissi. Feci per andarmene, ma bermuda appoggiò la sua
manona sul mio petto e fece no con la testa.
Era già tardi, non sarei mai arrivato al punto d’estrazione. Dovevo abortire la missione
se non volevo morire insieme a quegli esseri fastidiosi.
«Levalo», disse l’incravattato. «O chiamo la polizia.»
Bermuda sorrise e annuì come per farmi capire che il suo compagno era davvero in
grado di compiere tal gesto.
Cinque minuti.
Abbassai il capo, infilai la mano nella tasca posteriore dei pantaloni ed estrassi il
detonatore, un altro disco identico.
«Ci prende per il culo», disse la nonna. «Vuole mettere un altro di quegli affari!»
Bermuda mi schiaffeggiò le mani facendo cadere il detonatore per terra, poi lo
schiacciò con le ridicole ciabatte infradito che indossava mandandolo in mille pezzi.
Sbiancai.
«Ben fatto!» disse la nonna.
«Siamo tutti morti», dissi tra me e me.
L’incravattato si fece avanti spavaldo. «Forza, ora togli quello dal monumento.»
Li guardai tutti con un disprezzo che fuoriusciva da ogni poro del corpo che avevo
preso in affitto.
«Non si può», dissi furente. «Quel disco è un dispositivo connesso con la mia nave
madre e tra pochi minuti libererà un’energia così devastante da ridurre tutto al suolo
per un raggio di decine di chilometri e voi, furbacchioni, avete appena distrutto l’unico
strumento in grado di disinnescarlo.»
Bermuda disse le sue prime parole: «Eh?»
«Parla come mangi, disgraziato!» disse la nonna menando il bastone in aria.
«Sto dicendo che la vostra città sta per scomparire. E noi con lei.»
L’incravattato scoppiò a ridere così forte da farsi venire le lacrime. «Questo qui ha
qualche problema», riuscì a dire tra una spanciata e l’altra.
Controllai il radar.
Due minuti.
«Sono venuto sulla Terra con una missione ben precisa: distruggere una città che
rappresentasse qualcosa di potente per voi umani. Un simbolo di novità e storia al
tempo stesso. Una comunità che è rinata dalle guerre e dalle crisi, una promessa per
uno sguardo al futuro pur mantenendo salde le radici. Così ho scelto Torino. La sua
distruzione sarà solo il primo pezzo di un puzzle diabolico che andrà a comporsi nei
prossimi giorni. Il primo passo della nostra venuta. Perché voi umani siete gretti ed
egoisti, non sarete mai in grado di evolvere e, più di ogni altra cosa, puzzate.»
«Ci mancava un alieno razzista», disse bermuda.
Ultimo minuto.
Mi infilai in bocca un’altra sigaretta e l’accesi. La vecchia si avvicinò e mi guardò dal
basso della sua curvatura. Sembrava che avesse passato diversi anni piegata dentro una
valigia.
«Avevo visto bene», disse. «Sei una brutta persona. Non hai dei genitori sul tuo
pianeta? Sanno quello che fai? Sono sicura che se lo sapessero approverebbero ciò che
sto per fare.»
Così la nonna ninja mi colpì alla testa con il suo vecchio bastone rinsecchito come lei.
E tutto divenne nero.
Quando riaprii gli occhi scoprii con mia grande sorpresa di essere ancora vivo. Mi
guardai intorno. Mi trovavo nell’infermeria della nave madre e avevo riacquisito le mia
reale forma.
«Bingo 617, sei stato estratto con successo», disse una voce computerizzata.
Mi alzai dalla branda e fluttuai verso l’oblò che dava sullo spazio esterno.
«Come sarebbe?» domandai. «Dove ci troviamo?» Ero confuso, qualcosa non aveva
funzionato.
La nave madre mi rispose dagli altoparlanti: «Stiamo tornando a casa. La missione è
stata cancellata. Ordini dall’alto.»
«Cosa? Come sarebbe? E la città di Torino?»
«Ho disinnescato il dispositivo. Nessuna esplosione. Sembra che gli scienziati abbiano
scoperto una serie di batteri e microbi presenti sul pianeta potenzialmente fatali per voi.
Hanno deciso di rimandare l’invasione a quando avranno trovato vaccini efficaci.»
«Quindi si torna a casa», dissi osservando l’immensità delle stelle che sfrecciavano
veloci.
«Esatto», disse il computer. «Ti hanno lasciato un incarico durante il viaggio di
ritorno.»
«Sarebbe?»
«Sono stati prelevati degli indigeni al fine di studiare la loro resistenza ai patogeni.
Dovrai analizzarli. Sono organismi molto coriacei, uno in particolare.»
La porta dell’infermeria si aprì scorrendo da destra verso sinistra.
«Eccolo qui il nostro vandalo», disse la nonna ninja entrando nella stanza con la sua
gobba da record. «Hai cambiato aspetto, ma io ti vedo. È come scorgere una mela
marcia in un cesto di mele buone. Lo sai cos’è una mela, vero? Secondo me mangi solo
schifezze.»
Voltai i miei grossi occhi neri ancora una volta verso le stelle.
«Ma porca puttana», dissi tra me e me. «Questo sì che sarà un lungo viaggio.»

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2 risposte

  1. BPM ha detto:

    Carino, leggero e divertente!
    Potrebbe essere quasi la storia per un fumetto.

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