Nei Boschi Là Fuori
NEI BOSCHI LÀ FUORI
La prima cosa che notai ancor prima di aver aperto gli occhi fu il saporaccio di whiskey nella mia bocca. Mi sollevai a fatica dal pavimento con le tempie che martellavano impazzite.
Mi resi conto di essere in mutande, in una stanza sconosciuta e priva di alcun tipo di arredamento. L’unico oggetto era una bottiglia di vodka Russian Standard ancora sigillata. Al collo portava un etichetta: bevimi e sarai libero.
Mi alzai in piedi e mi diressi barcollando verso l’unica parete ad avere un’uscita.
Mi trovai a navigare attraverso ofuscati pensieri.
Come ho fatto ad arrivare qui? Devo aver alzato nuovamente il gomito, eppure ricordavo di essere in casa con Matilde e le bambine. Ma cosa ho fatto? Sarò uscito dopo una sfuriata? Spero di non aver alzato le mani su nessuno. Oddio, perdonami.
Ok, resta concentrato. Devi sloggiare da questo posto assurdo e tornare all’ovile.
Sì, vedo un’uscita!
La porta d’acciaio che avevo di fronte era blindata. Nessuna maniglia, né chiave.
Nessuna via di fuga.
Crollai a terra sul sedere ed un brivido aguzzo attraversò la mia intera spina dorsale.
Strisciai verso la bottiglia e la presi tra le mani. Ancora quel biglietto: bevimi e sarai libero.
Così feci l’unica cosa possibile. In realtà dovetti ammettere che avrei voluto farlo sin dall’inizio. Svitai il tappo con violenza e mandai giù quel veleno trasparente che prese a bruciare nello stomaco. Un formicolio di godimento partì dalle dita dei piedi sino ad arrivare alla testa ingorda di piacere. Ora stavo meglio, questo era lo stato mentale che andavo cercando.
La vodka era finita. Mi voltai verso la porta con infantile attesa.
Non successe niente.
Dopo qualche istante il cadavere della bottiglia venne risucchiato da un tubo comparso magicamente alle mie spalle. Sentii qualcosa rotolare alla mia sinistra. Era comparso un whiskey Macallan che mi osservava beffardo. Al collo una nuova etichetta: non aprirmi e sarai libero.
Cercai di mettere a fuoco la vista, ma l’alcol che scorreva nelle vene non mi facilitava il compito: ora mi sembrò ci fossero addirittura tre bottiglie di Macallan. Nel dubbio afferrai quella in centro.
«Vi state prendendo gioco di me!» biascicai. Chiunque fossero le persone ad avermi rinchiuso in quella cella di metallo, sembravano conoscere i miei usi ed abusi.
Strinsi la bottiglia ancora più forte. Il mio sguardo si appannò e si perse oltre il whiskey. Nei meandri del vuoto che la dipendenza aveva creato dentro ed intorno a me. Pensai a tutte le persone che avevo deluso, a quelle che avevo rovinato, alle poche che (purtroppo per loro) erano rimaste con difficoltà al mio fianco, forse perché costrette. Quanto sarebbero ancora durate? Chi avrebbe ceduto prima? Il mio fisico o la loro pazienza?
Pensai a Matilde e alle bambine. Che futuro avrei potuto dare loro?
Una lacrima s’infranse sulla bottiglia di Macallan che ancora stava inerte e sigillata tra le mie mani. Non avrei potuto resistere ancora a lungo.
Mi alzai da terra con uno sforzo incredibile. Sembrava che l’intero mondo gravasse sulla mia schiena storta. Mi stavano osservando con microcamere ad alta tecnologia? Sì, non vi era dubbio.
Quanto avrei dovuto attendere prima che essi decidessero di aprire la dannata porta non mi era dato sapere.
Nell’arco della mia vita la forza di volontà aveva avuto alti e bassi agli antipodi. In quel preciso istante dimostrò tutta la sua caparbietà: lanciai con un urlo di pura rabbia (indirizzata a me medesimo) il Macallan contro la porta blindata d’acciaio. Il vetro si frantumò in miliardi di pezzettini ed il liquore si riversò sul pavimento ghiacciato fino ad insinuarsi tra i miei piedi nudi.
Poi crollai a terra e persi i sensi.
La prima cosa che notai ancor prima di aver aperto gli occhi fu il cinguettio degli uccelli che, come in una magica danza, si spostava da un albero all’altro.
Ero fuori da quella prigione, lontano anni luce dagli ofuscati ricordi di quell’assurdo incubo. Il mio vestiario non era cambiato: un paio di mutande luride e sgualcite e nulla più. Però non ero più rinchiuso chissà dove; riconobbi le piante che mi circondavano e il sottobosco erboso non lasciava ombra ad alcun dubbio: il bosco dietro casa mia.
Sollevai le dolenti membra e mi drizzai in piedi. Un cerchio mi strinse le tempie con tale intensità che per un attimo credetti mi sarebbe implosa la testa. Non dovevo essere rimasto troppo a lungo privo di sensi poichè il saporaccio di vodka Russian Standard aleggiava ancora tra le mie fauci. Cominciavo però già a sentire gli effetti dell’astinenza.
Sangue chiama sangue.
Chiunque fosse l’artefice di quel grottesco rapimento era svanito. Perlomeno così mi sembrò.
Barcollando e sputando mi avviai nudo come un verme lungo il sentiero. Volevo solo raggiungere la mia destinazione il più veloce possibile, fare una doccia calda e spararmi un’altro po’ di veleno giù per l’esofago. Non c’era altro desiderio nella mia mente malata. Dovevo solo trovare una scusa appropriata con Matilde, che di sicuro avrebbe piantato l’ennesima scenata, ma ero giunto ad un tale livello di assuefazione che tutto sommato mi sembrò una sciocchezza facilmente superabile.
Infine la vidi.
Stava lì, come ricordavo. La baita di pietra e legno che mio padre mi aveva lasciato in eredità qualche anno prima e che, era diventata a tutti gli effetti la nostra casa di villeggiatura estiva.
Il conato arrivò improvviso e mi investì con la forza di un treno merci lasciato allo sbando
Forse fu colpa della sforzo, più probabilmente della vodka, fatto sta che riversai un fiume di succhi gastrici proprio davanti all’uscio. Schizzai completamente la porta in legno di noce e per poco non scivolai sul mio vomito. Mi passai la mano sulla bocca bavosa e attraversai l’ingresso.
La baita era immersa nell’oscurità, fatta eccezione per un lume appoggiato sul mastodontico tavolo in larice posto al centro della sala da pranzo.
Matilde, dove sei finita? Dove sono le mie figlie?
Un oggetto assai familiare stava dritto sul tavolo di fronte a me.
No! Non è possibile!
La bottiglia di Vodka Grey Goose era ancora sigillata. Sul collo riportava una nuova etichetta.
Mi avvicinai tremante e lessi con orrore e raccapriccio quelle poche parole scritte in corsivo: aprimi e non Li rivedrai mai più
Crollai in ginocchio sbattendo i palmi delle mani sul parquet sistemato con cura diversi anni prima. Dovevo mettere a fuoco ciò che stava accadendo, ma per farlo avrei dovuto aspettare che passasse la sbornia, e a quel punto sarebbe forse stato già troppo tardi.
Poi la lampadina nella mia testa si accese. Sapevo esattamente cosa fare e come farlo, dovevo solo riuscire a raggiungere la camera da letto al piano superiore. Chiunque fosse l’artefice di quel macabro gioco l’avrebbe pagata cara.
Mi tirai su in piedi con estrema fatica, ora anche la vista mi tradiva. Sul tavolo erano comparse due bottiglie di vodka, una accanto all’altra, del tutto identiche. Niente di nuovo. Barcollai pericolosamente fino al doppio corrimano della maledetta scala che portava di sopra.
Ovviamente anche i gradini erano doppi, mi toccava solo scegliere su quale appoggiare il piede.
Non ricordo con esattezza se riuscii ad arrivare fino a metà della rampa o inciampai prima. Sta di fatto che il mondo si capovolse diverse volte prima di fermarsi del tutto.
Sputai sul parquet un misto tra sangue e succhi gastrici. Il ginocchio destro urlava di dolore, così come le costole ed il braccio sinistro. Ma strinsi i pugni e mi rialzai. Afferrai il doppio corrimano con la mia doppia mano destra e cominciai la lunga salita. Piano piano, passo dopo passo arrivai al piano superiore. Una fitta di dolore travolse il mio addome. Il bagno stava a pochi passi da me, ma già sapevo che non ci sarei arrivato in tempo.
Cagai lì sul pianerottolo, senza neanche preoccuparmi di abbassare le mutande (per carità, non parliamo neanche di inginocchiarsi). Avvertì la calda colata di merda liquida scendere sulle gambe e cominciai a piangere.
Mai avrei immaginato di arrivare così in basso.
Qualcuno aveva rapito la mia famiglia e mi aveva lasciato ubriaco fradicio, a cagare e vomitarmi addosso nella nostra baita. Qualcuno che, per qualche strano motivo, usava l’alcool come ricatto.
Mi passai una mano sul volto ad asciugar le lacrime, la merda la lasciai scorrere libera.
Dovevo tornare sobrio, e in fretta. Non avevo il tempo per una bella ronfata, no, il tempo era contro di me.
Appoggiandomi alle pareti dell’obliquo corridoio riuscii finalmente a scovare la camera da letto.
Era sempre stata lì, per lo meno nessuno l’aveva ancora spostata.
Con i piedi zuppi dei miei escrementi calpestai la soffice moquette verdastra fino ad arrivare al mio comodino. Aprii il doppio cassetto e scovai subito ciò che andavo cercando.
La bustina di polvere bianca luccicava beffarda al mio cospetto.
Composi una lunga linea di (sembra talco ma non è, serve a darti l’allegria) polvere e la inalai avidamente. Me ne passai anche un po’ in bocca, tra le gengive, per sicurezza. In pochi minuti, con l’impetuosità di una nave lanciata in porto alla massima velocità, mi ridestai.
Ok, pensai, il mondo sembra essere tornato diritto. Ora fatti una doccia veloce, poi andrai a cercare i soccorsi. Devi trovare la tua famiglia, non puoi permetterti perdite di tempo. Ogni secondo è importante.
E così feci.
La doccia rinvigorì i miei nervi, che erano stati a lungo provati. Mi guardai nello specchio del bagno ancora tutto bagnato. Dovevo far breccia nei miei ricordi come una lama nella carne fresca. Cercai di concentrarmi e la cosa che vidi fu me stesso arrivare alla baita in compagnia di Matilde, Gloria e Emma, le nostre due figlie. Vidi Matilde ordinare alle bimbe di disfare le valigie, vidi me stesso recarmi nel mio studio privato, aprire un armadio e prendere la prima bottiglia di Jack Daniels che mi capitò a tiro. Mi vidi trangugiarla osservando con occhi sempre più piccoli il bosco al di fuori della finestra. Qualcosa si mosse.
Poi nero.
Qualcuno era entrato in casa e le aveva rapite? Probabile. Ma perché architettare con me questo gioco perverso? Dovevo avvertire la polizia, ma non disponevamo di telefono nella baita e gli smartphone erano pressoché inutili per via della mancanza di segnale. Mi sarei recato con la macchina alla stazione di servizio giù nella strada statale. Mi sarebbero bastati 45 minuti di guida sulla mulattiera.
Una volta vestito, scesi le scale quasi di corsa.
Prima di andare ci starebbe un bel goccetto di quella Grey Goose rimasta intonsa sul tavolo, vero? Andiamo, solo un bicchiere e poi via.
Rimasi di stucco. La bottiglia non c’era più e al suo posto era comparso un altro oggetto che non riuscivo bene a definire. Mi avvicinai al tavolo guardingo, mantenendo più alta possibile la soglia dell’attenzione. D’altronde ero strafatto di coca!
Arrivai al tavolo di larice e lo presi tra le mani. Un piccolo quadrato di legno. Lo sollevai e scoprii che conteneva una vecchia bussola da topografo. Al suo interno un biglietto scritto con una grafia che avevo ormai imparato a conoscere: segui sempre verso Est. Non indugiare. Lì, troverai la tua famiglia
Porca merda!
Mi sentivo perseguitato da qualche sadico perverso ed urlai contro il cielo la mia frustrazione. Corsi di fuori, col viso paonazzo, a controllare l’auto con cui eravamo arrivati.
Sparita.
La mia toyota era scomparsa, volatilizzata nel nulla. Mi restavano solo le gambe.
«Cristo», dissi esasperato.
Rientrai nella baita a passo fermo. Presi uno zaino da escursione e lo riempii con le più inutili nefandezze che corrompono l’anima. Alcol, pastiglie per il dolore, pastiglie per dormire, tanta polvere bianca e ancora alcol.
Chiusi lo zaino soddisfatto e, con in mano la bussola e puntando sempre verso est, mi addentrai nel bosco che mi circondava alla ricerca di ciò che avevo di più caro a questo mondo.
Il sentiero diretto verso est era più impervio di quanto ricordassi. Dopo un’ora di camminata – ed essendo svanito l’effetto della cocaina – fui costretto a fare una pausa. Mi sedetti su di una roccia umida e gelata e volsi lo sguardo al cielo. Grosse nuvole nere cariche di odio si stavano collocando sopra la mia testa. Un borbottio lontano, niente di che. L’istante dopo un altro fulmine colpì un albero a pochi passi da me e crollai di lato per lo spavento. L’enorme larice prese fuoco come se fosse stato toccato dal diavolo e consumò la sua vita. Poi giunse il boato, tremendo spaventoso, una vibrazione che ancora oggi fa tremare ogni mia cellula.
Osservai incantato le fiamme che s’innalzavano sempre più, lingue danzanti nell’oscurità che tentano di afferrare ogni genere di vita per carpirla e inghiottirla nelle tenebre degli inferi.
Presi una bottiglia dallo zaino, dello sherry da quattro soldi, e vi infilai il collo ghiacciato direttamente nella mia gola riarsa.
Sapore dolce, ciliegia, note acidule, alcol, alcol, ancora alcol.
Lanciai la bottiglia vuota contro l’albero in fiamme e mi rialzai barcollando.
Una goccia, poi un’altra, un’altra ancora. La pioggia cominciò a inzupparmi da capo a piedi rendendo il mio viaggio ancor più miserabile e difficoltoso, ma non aveva importanza. Avevo una missione. Sniffai coca e ripresi a camminare.
Poche ore dopo uscì il sole. Il temporale sembrava solo un ricordo lontano. Giunsi in cima ad un crinale, sempre seguendo est. Quanta strada avevo fatto? Quante bottiglie mi rimanevano? E quanta coca?
Matilde, dove siete?
Mi fermai di nuovo, questa volta in una piana costellata da fiori di campo dai mille colori.
Presi un’altra bottiglia, questa volta ci andai più pesante: puro malto scozzese, uno scotch coi controcazzi. Lo osservai tra le mani, lo fiutai, lo assaporai mentre scendeva giù per l’esofago con un ingordigia pura e benefica. Avvertii il suo calore penetrarmi le viscere, mi lasciai coccolare dai brividi di piacere che atrraversavano ogni atomo del mio corpo, attesi che l’estasi mi avvolgesse tra le sue spire.
Poi crollai a terra.
Mi svegliai con il gusto acido del vomito in bocca. Ero stato fortunato a non soffocarmi nel sonno con la mia stessa bile. Presi la polvere bianca.
SniiiiiiiiiiiiiiiiiiF
Andava meglio, ma lo zaino sulle spalle era ormai troppo leggero, il che significava una sola cosa: le mie scorte scarseggiavano.
Caracollai giù dalla collina infischiandomene dei rami degli alberi che mi sferzavano il viso lasciandomi righe rosse di sangue marcio. Continuai a correre in preda ad un panico crescente, finché non inciampai su di una radice, ma anziché fermarmi cominciai a rotolare come una di quelle piccole palle di neve che si vedono nei cartoni animati e man mano si trasformano in valanga.
Vedevo il mondo prima dritto, poi al rovescio. Dritto e rovescio, rovescio e diritto.
Infine mi fermai a pancia in giù.
Mi sollevai in piedi e…
No! Questo non è possibile. Dannazione, ho sempre seguito l’est sulla bussola!
La baita di mio padre stava lì, a pochi metri da me. E mi osservava beffarda.
Avevo girato in tondo.
Ma non è forse questo che facciamo nella vita? Giriamo e giriamo e giriamo illudendoci di avere una meta, una destinazione finale, uno scopo. In realtà continuiamo a girare come delle fottute trottole e nessuno sembra mai in grado di darci una spiegazione.
Entrai nella baita a capo chino e lanciai lo zaino, ormai vuoto, in un angolo.
«Era ora che arrivassi.»
Un’ombra mi attendeva nel buio del soggiorno, con il solo fioco chiarore del caminetto ad illuminare i lineamenti confusi. Indossava una mantella nera con un cappuccio che copriva la maggior parte del viso. Il suo aspetto era sfuggente, avvolto da un alone di incomprensibile segretezza.
Era lui l’architetto di questo piano diabolico? Aveva lui Matilde e le bambine?
L’alcol mi annebbiava mente e corpo, non sarei stato in grado di sopraffarlo neanche grazie a un miracolo, ma qualcosa mi sarei dovuto inventare. E in fretta anche.
«Chi sei e cosa hai fatto alla mia famiglia?» gridai spargendo saliva maleodorante dalla bocca putrida. Per il momento decisi di mantenere le distanze.
«Calmati e respira», disse l’ombra. La sua voce rispecchiava la sua immagine. Sfuggente, indecifrabile. Senza genere. «Vieni a sederti qui con noi e, se farai il bravo, ti racconterò una storia. Non una di quelle che ti immagini, sporche tragiche e destinate a collassare su se stesse. Sarà una storia piena di vibrazioni d’amore e gioia. A patto che tu sia disposto ad ascoltarla.»
Con un cenno della mano mi indicò la sedia.
Trascinai i piedi stanchi e feriti e, pur mantenendo i nervi in tensione, presi posto sulla sedia davanti a lui.
«Molto bene», disse. «Ti possiamo offrire qualcosa da bere?»
Strabuzzai gli occhi. «Mi prendi per il culo?»
«Oh, nient’affatto. La strada per la redenzione è lunga e tortuosa, amico mio. Se deciderai d’imboccarla non potrai disintossicarti così di punto in bianco. Dovrai fare un piccolo passo alla volta. Immagina di avere davanti a te una lunghissima scalinata irta per arrivare in cima. Cosa succederebbe se provassi a raggiungere la vetta con un sol balzo? Oh no, no. Cadresti tra le rocce e ti fracasseresti la testa. Non vorrai mica vedere le tue cervella rimbalzare sugli scalini come quel vecchio gioco chiamato slinky, la molla magica, ricordi? Tieni, prendi qua.»
Versò del whiskey in un bicchiere e lo fece scivolare sul tavolo imitando i baristi dei film western.
«Un passo alla volta», disse.
Trangugiai il liquore in un istante e gli lanciai indietro il bicchiere.
«Sei stato tu ad organizzare tutto questo?» domandai.
Da sotto il cappuccio mi sembrò di intravedere un sorriso.
«Siamo stati noi, sì.»
«Chi siete Voi? Pretendo di vedere la mia famiglia.» La sicurezza nella mia voce cominciava a perdere colpi. «Voglio sapere se stanno bene.»
«Loro stanno bene. Sei tu ad avere qualche problemuccio, giusto?»
«Se questo è un ricatto, sappiate che non sono ricco. Facciamo fatica ad arrivare a fine mese…»
«Lo so, lo so», mi interruppe alzando la mano. «Non siamo qui per soldi. Da dove veniamo il denaro non ha alcun valore.»
«E cosa volete, allora?»
Venni folgorato da una terribile sensazione. Non ero mai stato credente, di alcuna religione, quindi, da buon ateo rifiutavo a prescindere l’esistenza di qualcosa di superiore che ci governasse. Angeli, demoni, entità occulte. Ma, osservando la presenza che stava di fronte a me, le gambe cominciarono a tremare.
«La mia anima», mormorai.
Silenzio che parve eterno.
«Ah ah ah!» L’ombra buttò la testa all’indietro e per un’istante scorsi dei lineamenti. Un viso familiare. Cicatrici mai viste. Ma solo un breve, fuggevole, attimo.
«Era un po’ che non ridevamo così», disse. «L’alcol ti rende simpatico, a volte. L’avevamo scordato. No, no e poi no. Sei completamente fuori strada.»
«Allora spiegami, ti prego», supplicai. «Non lasciarmi in questo limbo del cazzo!»
Si portò una mano al viso e restò così immobile per un tempo che mi sembrò infinito.
«Non sei ancora pronto per la verità», disse infine. «Ma noi siamo venuti qui oggi per dartene un assaggio.-
Protese le mani verso le mie.
«Avanti, stringi le nostre mani», disse.
Provai paura. Una sensazione mai provata in precedenza. Qualcosa dentro di me sapeva che quella era una strada a senso unico. Se l’avessi intrapresa avrei potuto perdermi in un vortice di tenebre perenni.
Pensai a Matilde. Alle nostre difficoltà, le gioie, alle creature che avevamo messo al mondo e che ora stavano camminando con le loro gambe. Loro erano Tutto.
Strinsi quelle fottute mani.
La prima cosa che vidi fu la mia famiglia.
Matilde stava preparando gli gnocchi al formaggio e broccoli, i miei preferiti. Ci trovavamo nel nostro alloggio in città. Le bambine si rincorrevano intorno al tavolo della cucina sbraitando e rubandosi i giocattoli a vicenda. Io… io stavo seduto sulla mia poltrona a leggere un romanzo di Walter Tevis e in mano stringevo il solito bicchiere.
«Amore, è quasi pronto», gridò Matilda dai fornelli. «Raduna la marmaglia.»
Qualcosa non andava.
Posai il libro, mi alzai e la raggiunsi. Lei era lì, bella nelle sue imperfezioni, che lottava per amalgamare il sugo. Le sfiorai il viso col naso e annusai a lungo.
«Ma che fai?» disse ridendo. «Ci sono le bimbe. Lasciami finire che ora si mangia.»
Feci un passo indietro. Le risate delle mie figlie riempivano la stanza fino a far esplodere le pareti.
Ero felice.
Volsi lo sguardo al bicchiere e il liquido trasparente mi attirò a sé come una maga incantatrice.
Sempre più vicino alla bocca. Sempre di più. Ancora un po’.
Non farlo! Rovinerai tutto, come al solito! Fermati, fermati, fermati, maledizione!
Trangugiai il liquido trasparente in un sol colpo.
Qualcosa non andava.
Acqua. Avevo appena bevuto un cazzo di bicchiere di acqua liscia.
Poi venne di nuovo buio.
Ritrassi le mani e per poco non caddi all’indietro sul pavimento.
L’ombra era lì. Lo era sempre stata.
«Che diavolo mi hai fatto? Era un’allucinazione?» domandai tremando.
«Nessuna allucinazione. Sono scorci di vite possibili, nell’infinita mente eterna del Tutto che si prospettano davanti ai nostri occhi mortali.»
«Non capisco un cazzo di quello che dici.»
L’ombra sbuffò.
«È normale, non ti chiediamo di capire, ma di ascoltare. Lasciarti guidare dal giusto flusso di coscienze che ti porteranno a un livello più alto. Alla felicità terrena, se così vuoi metterla. Per ora non puoi fare altro, cercare di comprendere è impossibile in quanto la tua mente non è pronta. Potrai solo avvicinarti, un passo alla volta. Ricordi la scala? Al momento il tuo obiettivo è smettere di avvelenare il tuo fisico con l’alcol. È insidioso, come un serpente che, con grande pazienza, inizia ad avvolgerti tra le sue spire e poco a poco ti stritola fino a che di te non resterà altro che un mucchio di polvere a cui nessuno darà più importanza. Il male sa essere paziente. Non ha fretta. Noi dobbiamo imparare ad agire allo stesso modo. Noi scommettiamo che non è ciò che vuoi per te stesso e per chi ti sta accanto, o sbagliamo?»
Lacrime salate attraversarono la pelle rugosa e scavata sciogliendosi tra le labbra ansimanti.
Tremavo come un bimbo.
L’ombra si alzò, si avvicinò e mi poggiò una mano sulla spalla. Si avviò verso l’uscita della baita.
«Aspetta», dissi. «Non mi hai ancora detto chi siete voi?»
Da sotto il nero cappuccio mi scrutò. Lungo silenzio. Disse: «Noi siamo una sola cosa. Noi siamo te e tu sei noi, ma non ti scervellare troppo amico mio. Il senso della vita è un altro.»
Si voltò nuovamente e, prima di scomparire nei boschi là fuori, aggiunse: «Matilde e i bambini sono di sopra che dormono. Magari fatti una doccia prima di raggiungerli.»
E così feci.
2 risposte
Inteso, penetrante.
Ben scritto al punto che diventa facile immedesimarsi nel personaggio e quasi provare le sensazioni descritte.
Ciao Bpm e grazie del commento!
Fa sempre piacere – ed è fonte di crescita – avere un’opinione esterna.
Speravo proprio di riuscire a trasmettere quel genere di emozioni.
Ciao.
Dario