DI TUTTO UN PO’
Tutto ebbe inizio con una scivolata.
Battei il fondoschiena così forte che avrei avuto dolori per una settimana, ma in quel momento
non vi diedi importanza. Mi rialzai cercando di mantenere l’equilibrio, scrollai il cappotto dalla
neve fresca e mi sistemai alla buona cappello e sciarpa. Volsi lo sguardo in alto. I fiocchi
sembravano immobili, cristallizzati, eppure continuavano la loro inesorabile discesa verso terra.
Era dal 1985 che la città di Chieri, in provincia di Torino, non assisteva ad una nevicata di tale
intensità. Nonostante fosse buio, il chiarore della Luna risplendeva attraverso tetti delle case e
strade deserte. Alberi di natale, luci appese sopra le vie principali, babbi che si arrampicavano
ovunque. Sembrava una giostra in continuo mutamento, seppur immobile.
Passai davanti alla chiesa di San Domenico e girai a sinistra nell’area pedonale. L’ora di
chiusura dei negozi era passata da diversi minuti, avevo fallito. Imboccai via Vittorio Emanuele
II infilando le mani nelle lunghe tasche del cappotto.
Ok, pensai, è la sera della vigilia di Natale, ci sarà pur qualche cristiano con le serrande ancora
su. Andiamo, mi basta un oggetto qualsiasi. Mi basta non tornare a casa a mani vuote anche
questa volta!
Desiderio negato.
Notai le saracinesche abbassate dei negozi ancor prima di avvicinarmi. Passai la piazzetta della
meridiana, alcuni ragazzi stavano facendo a palle di neve. Me ne arrivò una sulla spalla destra
spargendosi su tutta la sciarpa, ma non mi voltai nemmeno. Continuai a camminare concentrato
sul mio obbiettivo primario: tornare a casa con un regalo per Giulia.
-Ci scusi, signore!- sentii sghignazzare in lontananza.
Teppisti del cazzo, se non avessi una fretta del diavolo li avrei già massacrati di bastonate.
Una volta passato l’arco trionfale di piazza Umberto le mie già fievoli speranze si creparono
totalmente.
L’avrei delusa ancora una volta. Sarei tornato a casa a mani vuote e con le pive nel sacco. Altro
che cena di Natale, Giulia mi avrebbe rifilato il polpettone della sera prima, magari
scorreggiandoci sopra di nascosto. E avrebbe fatto bene, quale marito si presenta a casa la sera
della vigilia senza l’ombra di un pacchetto regalo. Sono un mostro.
Sfilai i guanti, portai la mano nella tasca interna del cappotto fradicio di neve e ne tirai fuori un
pacchetto di Marlboro rosse un po’ malconcio. Ne accesi una, soffiai fuori il fumo e osservai
divertito il riverbero verdastro che creava mescolandosi al vapore. Adoravo fumare d’inverno.
Poi la vidi.
L’insegna era debole, ma risaltava beffarda nell’atonia dei negozi che la circondavano.
DI TUTTO UN PO’
A gran falcate mi diressi verso il negozio. La maniglia ruotò sotto la torsione del mio polso e…
Aperto. Incredibile.
Ad un’occhiata iniziale non mi sembrò un granchè come locale. C’era odore di muffa e la
temperatura, bassa come al polo nord, mi fece rimpiangere la neve all’esterno. Tutti gli scaffali
erano vuoti, scatoloni pieni di cianfrusaglie occupavano gran parte del pavimento.
Era un cimitero di Natale.
-C’è qualcuno?- domandai con voce stridula.
Passi leggeri e veloci si mossero alle mie spalle. Qualcuno stava per aggredirmi.
Mi voltai di scatto e agitai le braccia nell’aria come un gatto che gratta sul vetro della finestra
quando vuole uscire sul balcone. Poi misi a fuoco lo sguardo e diventai rosso dalla vergogna.
Una bassa ed anziana signora mi osservava dal basso verso l’alto con marcato senso di
disapprovazione.
-E lei com’è entrato?- chiese la megera incrociando le braccia sul petto.
-La porta era aperta.- Mi sentii stupido per la mia reazione eccessiva, ma non avevo fatto nulla
di male. Dopotutto era stata lei ad avvicinarsi furtivamente come un ninja in un videogame.
-Devo averla scordata-, disse aprendo l’uscio per farmi uscire. -Siamo chiusi, mi spiace.-
Così feci una cosa che mi ero ripromesso di non fare mai più: mi inginocchiai davanti a lei e unii
i palmi delle mani, poi la fissai con occhi da gatto, pieni di speranza e (momentaneo)
asservimento.
-La imploro! Non posso tornare a casa senza un regalo per mia moglie. Non stasera. Non di
nuovo.-
La proprietaria di DI TUTTO UN PO’ rimase a braccia incrociate, i suoi occhi stanchi mi
squadravano con pietà.
-Le concedo cinque minuti. Sto facendo l’inventario, quindi troverà disordine. Non sposti nulla,
prenda quello che le piace e via di qua.- Così dicendo richiuse l’uscio e spense l’insegna
luminosa. Poi scomparve dietro un grosso bancone circolare di legno posto al centro del
negozio.
Mi rialzai in un lampo e cominciai la mia frettolosa ricerca. Buttai gli occhi un po’ ovunque, ma
quel posto sembrava una discarica di regali scartati e abbandonati. Probabilmente era già da ore
che la vecchia aveva cominciato a sbaraccare.
Come accade sempre, fu una luce ad attirare la mia attenzione; anzi, a dir la verità, una serie di
luci: un orologio digitale verticale da appendere alla parete. Non ero sicuro di comprenderne il
significato. Era di dimensioni ridotte, quasi tascabile, e composto da cinque quadranti con
diversi colori ciascuno: bianco, verde, giallo, arancione e rosso al fondo. Mi sfilai i guanti e lo
presi tra le mani. La cosa strana era che i numeri scorrevano a ritroso, quasi come fosse un conto
alla rovescia. Probabilmente qualcuno doveva aver impostato un timer. Al tatto, la superficie era
completamente liscia, priva di imperfezioni. Per quanto mi sforzai non fui in grado di trovare il
vano che ospitava le batterie.
Strano.
-Il tempo è finito.-
Un brivido attraversò interamente il mio corpo e per poco non feci cadere quello strano
orologio. Mi voltai. L’anziana proprietaria mi osservava con aria impaziente.
-Ha trovato quello che stava cercando?- domandò infine.
-Direi proprio di sì-, dissi con lo sguardo perso in quei numeri luminosi. -Prendo questo.
Riesce a farmi un pacchetto?-
Con lo sguardo torvo, afferrò da sotto il bancone un rotolo di carta rossa e bianca con degli elfi
sghignazzanti stampati sopra, poi mi sfilò l’oggetto dalle mani.
-Che strano-, mormorò. -Non ricordo di aver mai ordinato o venduto un articolo simile.
Potrebbe essere una vecchia sveglia o chessò io.-
Nonostante fosse digitale, le rifiniture ed il materiale sembravano d’epoca. Quasi d’antiquariato.
Antico, sì. Non immagini neanche quanto
Pagai il dovuto e, dopo aver elargito una bella mancia, mi rituffai nella neve che ricopriva il
mondo esterno. Impiegai quasi un’ora a raggiungere casa. Ogni passo sprofondava sempre più
nella neve fresca e sotto il cappello di lana la mia fronte era madida di sudore.
Entrai nell’appartamento con le movenze di un pupazzo di neve ubriaco. Mi scrollai come un
border collie, gettai tutti i vestiti – cappotto compreso – in un angolo e mi lanciai sotto la doccia
nudo come un tacchino il giorno del ringraziamento.
Uscito dalla calda umidità creatasi in bagno mi infilai la mia vestaglia preferita, versai un
bicchiere di scotch Dalmore e mi accesi una Marlboro. Il wiskhey si mescolava alla perfezione
con l’aroma del tabacco. Dalla vetrata della porta-finestra potevo contemplare uno scorcio
natalizio di una Chieri immersa nel silenzio della neve.
Qual momento di estasi.
Avevo ancora un’ora prima che Giulia rientrasse dall’aperitivo organizzato con le sue amiche.
Ero curioso.
Incautamente curioso.
Seduto sul soffice divano mi rigirai tra le dita il pacchetto appena acquistato. Facendo
attenzione a non rovinare la carta, sollevai gli angoli e ne estrassi il contenuto.
Un orologio. Una sveglia. Un timer. Senza bottoni, pulsanti, sportelli o quant’altro.
Un mistero racchiuso in quelle cifre che continuavano a scandire ritmicamente ed
inesorabilmente il passare del tempo. Il come era semplice: Il numero più basso, in rosso,
segnava i secondi, a seguire, andando verso l’alto, vi erano in arancione i minuti, in giallo le ore,
in verde i giorni, in bianco molto probabilmente i mesi. Il perchè rimaneva un mistero.
Chi aveva attivato quel timer? Come mai non c’erano meccanismi o micro pannelli solari? Come
si ricaricava quel dannato affare se non era presente un vano della batteria?
Cosa sarebbe successo allo scadere del tempo? Sarebbe ripartito? Magari era impostato per
conteggiare un anno solare.
Feci un breve calcolo dei numeri che riportava. Mi resi conto che qualcosa non andava. Nel
negozio non vi avevo posto particolare attenzione, ma ora avvertii una strana sensazione. Il
quadrante rosso dei secondi scorreva regolare, come quello arancione dei minuti. Tutti gli altri
erano fermi.
Scaduti.
Quello in giallo delle ore indicava zero-zero. Quello verde dei giorni aveva invece tre cifre:
zero-zero-zero. Comprensibile, solo tenendo conto che l’anno solare era composto da
trecentosessantacinque giorni.
Quindi, il primo quadrante posto in alto di colore bianco, di conseguenza conteggiava il passare
degli anni.
Com’era possibile?
Così antico
Mi infilai gli occhiali da lettura, avvicinai lo sguardo ed il bicchiere con il wiskhey più costoso
che avessi mai comprato mi scivolò dalle dita e si frantumò sul pavimento in gres.
Sei cifre.
Zero-zero-zero-zero-zero-zero.
Significava migliaia di anni. Centinaia di migliaia per l’esattezza.
Un cazzo di orologio digitale impostato con un conto alla rovescia di centinaia di migliaia di
anni. E mancavano quattro minuti e dodici secondi alla fine.
Doveva essere uno scherzo, pensai. E malfatto tra l’altro. Non esisteva altra spiegazione.
Quell’anziana negoziante mi aveva sicuramente preso in giro. Si era fatta beffe di me, già me la
immagino a casa, seduta su di una vecchia poltrona a ridere come una strega sfregandosi le mani
callose.
Eppure
Cosa sarebbe successo tra meno di quattro minuti?
Un’idea malsana, contorta e malata prese forma nella mia mente. Un brivido mi fece
accapponare la pelle.
Presi lo smartphone e digitai sul motore di ricerca: “comparsa homo sapiens sulla terra”
Il numero che apparve in grassetto sullo schermo del telefono corrispondeva.
Un numero a sei cifre.
Circa duecentomila anni fa.
Due minuti e venti secondi.
Mi alzai e barcollando vistosamente mi diressi alla credenza dei liquori. Stappai lo scotch e lo
versai direttamente in gola. Per quanto mi sforzassi di non credere nell’assurdo, mi trovai per la
prima volta nella mia vita ad imprecare contro l’inesorabilità dello scorrere del tempo.
Un minuto e cinque secondi. Rosso. Allarme Rosso.
Fermati, maledetto! Fermati!
La porta di casa si aprì e Giulia fece capolino nell’ingresso. Era ricoperta di neve. I biondi
capelli, generalmente lisci e perfetti, erano arruffati e sbarazzini. Le sue guance rosse. I suoi
occhi pieni di vita. La trovai bellissima
Quarantatré secondi rossi.
-C’è una bufera fuori, siamo uscite prima dall’aperitivo per paura di non riuscire a tornare.- La
sua voce era una melodia. Mi sorrise. -Così abbiamo più tempo per noi.-
Trentadue secondi.
E se non avessi mai comprato quel dannato oggetto? Pensai, avrebbe fatto qualche differenza?
Se io non lo osservo, il tempo scorre lo stesso? Da dove lo dovrei osservare per riuscire a
fermarlo? Da quanto distante?
Avanzai a gran passi verso Giulia che mi guardava stranita per l’espressione di terrore dipinta
sul mio volto.
Ventuno secondi.
La strinsi a me con dolcezza e le asciugai i capelli fradici di neve.
Dieci secondi.
-Sei tutta la mia vita, mi completi e non saprei neanche allacciarmi le scarpe senza di te. Ti
amo, Giulia.-
Un secondo.
Poi la baciai e, per quanto mi riguarda, il tempo si fermò.
Per sempre.