Chieri, Torino
+393494379810
dariomichielintaxi@gmail.com

ELVORON

Lunga vita alla narrativa!

ELVORON

La curiosità lo stava logorando come un virus che divora cellula dopo cellula.

Lo stava uccidendo.

Quanto tempo era passato?

Due ore, forse tre. Era preoccupato e affascinato. Nell’ultima ora la tempesta era cresciuta notevolmente e la sua veterana esperienza gli suggeriva che il culmine non era ancora stato raggiunto. Poteva udire il vento ululare la sua tiranna presenza. Lassù in cima alla montagna era il re, nessuno avrebbe osato contrastare la sua parola sibilante, nessuno avrebbe mai infranto le sue regole.

Quale mistero circondava Corey Tyler e la particolare escursione in cui l’aveva coinvolto?

Poteva odorare il tanfo delle sue menzogne: il ragazzo non gli aveva raccontato tutta la verità.

C’era qualcosa di più. Un sapere sepolto dietro quei tetri occhi blu.

Perché Tyler non era ancora tornato?

Due, tre ore: abbastanza tempo per morire congelato o solo Dio sa in quali mille altri modi.

Jack Breed prese una decisione. Infilò guanti, cuffia e occhiali, aprì la doppia cerniera che sigillava l’apertura anteriore della tenda e uscì nella tormenta. Si era preso la responsabilità di quel ragazzo e non avrebbe lasciato che la montagna rubasse la sua vita.

Il panorama esterno era apocalittico: la neve trasportata dal vento riduceva la visibilità a zero, ma lui sapeva come muoversi. Lontano dalla gente, dal traffico e dalla follia della giungla moderna. Quello era il suo mondo, il suo habitat.

Nonostante la tormenta riuscì a ricostruire l’itinerario percorso da Tyler e in dieci minuti di faticoso arrancare raggiunse la destinazione.

Dove sei Tyler?

Quale segreto nascondi?

Una roccia cava si prostrava maestosa davanti a lui. Pareva l’ingresso di un tunnel, scavato e logorato dal tempo.

Jack si chinò, estrasse una torcia elettrica da una tasca della giacca e imboccò l’entrata.

L’oscurità lo invase. Accese la torcia e, camminando lentamente per precauzione, notò le impronte nevose lasciate da Tyler.

Una caverna.

In cima alla montagna più fredda.

Dove sei?

Nelle tenebre qualcosa luccicava e brillava a pochi metri da lui. Qualcosa incastrato nella roccia. Sembrava parte di essa, ma capì subito che non lo era.

Jack si avvicinò furtivo e la sua bocca si spalancò per lo sgomento.

La strana superficie luccicante aveva un diametro di mezzo metro circa, era di un colore oro-ambrato ed emanava calore.

Emanava calore.

Calore.

Di che diavolo di materiale si trattava?

Calore.

Un materiale sepolto nella roccia. Jack si sfilò il guanto che ricopriva la mano destra e l’allungo verso la strana parete oro-ambrata. La cosa più strana che avesse mai visto in 73 anni di esistenza.

Voleva sapere. Doveva toccare.

«Ti consiglio di non farlo.»

Jack si voltò di scatto, ma la sua mano rimase a pochi centimetri dalla misteriosa porzione di parete.

Il giovane Tyler stava a un paio di metri da lui. Nel volto una maschera di disapprovazione, nella mano destra una calibro 38 pronta all’azione.

«Sai di cosa si tratta, vero?» domandò Jack.

«Quando ti ho assunto per questa escursione ti ho chiesto esplicitamente di non fare domande e non seguirmi mai. Due semplici regole, Jack.»

«Ero preoccupato per la tua vita. Avanti, ragazzo, abbassa quell’arma.» Il suo vecchio cuore cominciò a rimbalzare dentro al petto.

«Non saresti dovuto venire fin qui. Ora è troppo tardi, hai visto», disse Tyler facendo un piccolo passo in avanti.

«Cos’ho visto, Corey? Niente che non possa dimenticare!»

«Non capisci, vecchio! Esso è troppo importante. Devo eliminare ogni rischio derivante dal mondo esterno.»

Il dito di Tyler accarezzò il grilletto della rivoltella. Jack si preparò all’impatto chiudendo gli occhi. Era troppo vecchio per supplicare.

Tyler premette il grilletto.

Silenzio.

Avanti, vecchio. Questo è il tuo momento. Probabilmente la rigida temperatura deve avere inceppato l’ingranaggio della pistola.

In un istante Jack si lanciò contro il giovane che, disorientato, scivolò e cadde sulla superficie rocciosa della caverna.

Concentrati, vecchio. Scegli la tua arma.

Jack sfilò rapidamente il suo pugnale da caccia dalla custodia. La lama luccicò nelle tenebre.

E così il sangue scorse.

E così il custode perì.

«Non cercare la verità, essa è crudele, ti ucciderà», disse Tyler in un ultimo sanguinolento gorgoglio. «Non risvegliare ciò che la natura e il tempo hanno sepolto. Immenso esso è: un paio d’occhi non bastano. Non bastano.»

Jack fissò con orrore il corpo morente del suo cliente. Il pugnale scivolò dalle sue mani e rovinò sulla roccia.

È così immorale cercare di salvare la propria pelle? Non avevo mai ucciso prima d’ora. Non avevo…

Una luce alle sue spalle lo chiamò.

Lei.

La causa di tutto quel sangue.

Che cosa sei?

Jack allungò la rossa mano verso la calda superficie oro-ambrata.

Contatto. Era liscia come il marmo, luminosa come una stella, ardente come la vita.

E la luce lo circondò e lo avvolse tra le sue tiepide braccia.

TRE ANNI DOPO

Le magre dita danzavano sulla tastiera come piccole serpi affette da attacchi epilettici.

«È più complicato di quanto immaginassi», disse Lanny digrignando i denti.

«Ti pago perchè sei il migliore. Non deludermi», disse Caroline. Aveva bisogno di risposte e Lanny possedeva le chiavi per aprire le porte giuste. Allo stesso tempo era consapevole di quanto rischioso fosse indagare sulle sporche faccende commerciali di uno degli uomini più ricchi e potenti della nazione.

Gerald Sheffield.

Brillante e determinato discendente di una famiglia di nobili origini, aveva investito ingenti quantità di danaro nell’industria del tabacco e in stabilimenti petroliferi.

Le sue lunghe mani arrivavano ovunque e, come capita spesso, si sentiva (e la maggior parte delle volte lo era davvero) al di sopra delle normali leggi che regolano l’umana coesistenza. Caroline era convinta soffrisse della sindrome del super-uomo. Allo stesso tempo era convinta fosse implicato in numerose esportazioni illecite di tabacco e petrolio e addirittura traffico di droga.

Si vociferava fosse uno dei pilastri portanti nella circolazione di stupefacenti del paese.

Ma erano solo voci, niente altro che sussurri bisbigliati nell’ombra. Trovare materiale scottante su quell’uomo sembrava un’impresa impossibile, ma lei disponeva di parecchie buone carte nella manica. Non assi, quelli li lasciava ai giornalisti suoi colleghi gonfiati e professionisti, gente meschina circondata da finti luccichii che si divertiva a camminare due metri sopra il suolo.

Sulle teste dei comuni mortali.

Lei aveva buone carte.

Modestamente buone.

Charlie Pritcher, suo fedele informatore da più di tre anni, le aveva comunicato che un anno prima una squadra di cinque uomini, adornata di sofisticate quanto strambe apparecchiature, era stata mandata a condurre Dio Solo Sa quali ricerche sperimentali sull’alta cima conosciuta con il nome di Mount Field.

Commissario della spedizione: Gerald Sheffield.

Strambo.

Che cosa c’era di così interessante sulla punta di quella montagna da far allungare le mani del nostro amico Paperon de Paperoni?

Dopo circa una settimana di perlustrazione, la squadra era ritornata alla base con all’armanti notizie su un’imminente disgregazione del territorio causato da un particolare agente patogeno insito nella roccia. Dopo aver avvertito la protezione ambientale della preoccupante catastrofe in arrivo, Gerald Sheffield si era offerto come mecenate per una profonda opera di bonificazione del territorio. Aveva affermato di avere avuto un incremento della sensibilità ambientale dopo aver toccato con le sue mani i devastanti effetti del petrolio.

Balle.

Abominevoli menzogne. Qualsiasi mistero ci fosse tra le nevi di Mount Field, Sheffield sembrava determinato ad impossessarsene.

Circa sei mesi dopo la proposta e il progetto per la bonificazione dell’area vennero approvati.

In questo preciso istante più di centocinquanta uomini, tra cui operai minerari, guide alpine, geologi e trivellatori, erano impegnati nella più grande opera di bonificazione nella storia dell’uomo.

Ma c’era qualcosa di più. Qualcosa che sfuggiva all’occhio attento dei media e delle forze dell’ordine.

Qualcosa che Caroline conosceva e di cui era terrorizzata.

Quel qualcosa era l’avido e impaziente sguardo di Gerald Sheffield.

Uno Che-Si-Fotta-L’ambiente-Che-Si-Fottano-Le-Leggi-Che-Si-Fottano-Tutti-Quei-Damerini-Impettiti-Che-Cercano-Di-Aiutare-Il-Mondo-Con-La-Loro-Insolente-Conoscenza-Di-Ciò-Che-È-Giusto-E-Ciò-Che-Non-Lo-È sguardo.

Io sono il re, questo è il mio reame! Lasciatemi fare di una montagna una spiaggia, dunque, perché questo è il mio volere. Amen.

Sì, qualcosa del genere.

Sei pazzo, vecchio. Ma non stupido. Ti sono dietro, seguo le tue tracce, voglio vedere cos’hai visto. Voglio vederlo con questi occhi. Sono quasi arrivata.

«Ci sono, forse.» Lanny battè le mani l’una contro l’altra. Una combinazione di due cifre e avrò hackerato il sistema!» disse compiaciuto. Le sue dita continuarono a danzare.

«Avanti, maestro. Illuminami con la tua magia», disse Caroline avvicinandosi impaziente al monitor del terminale.

«Girate le chiavi nella toppa delle porte del paradiso. Il vostro angelo maledetto sta tornando a casa. Fatto!» Lanny aprì una cartella situata in un angolo del monitor, poi si accese una sigaretta entusiasta di essersi guadagnato la pagnotta.

«Spero sia quello che stavi cercando, dolcezza.»

Caroline copiò il contenuto sulla sua chiavetta usb. La cartella era stata nominata “Il progetto Elvoron e lo strano caso di Jack Breed”.

Sorrise.

«Esattamente ciò che stavo cercando, mio giovane hacker.»

DUE SETTIMANE PRIMA

Il land rover grigio metalizzato era scomparso dietro la curva.

L’aveva vista?

Si era accorto di lei?

Caroline fermò la macchina nella prima area di servizio. La pioggia sbatteva violenta contro il vetro parabrezza, ma lei si sentiva coccolata dall’assordante rumore che creava rimbalzando sul tetto del veicolo.

Sfoga la tua aggressività lontano da me, devasta, sconvolgi, ma lasciami crogiolare nel mio nido sicuro.

Si accese una marlboro rossa. La nicotina stimolava le sue sinapsi e intensificava la concentrazione.

Dov’era finto il suo pedinato? Come poteva essere stata così stupida da farselo scivolare dalle mani come sapone?

Era sicura fosse uno degli uomini di Sheffield che faceva parte del progetto chiamato Elvoron.

Voleva risposte.

L’accendisigari della macchina le scivolò dalle mani. Si chinò per raccoglierlo e quando si risollevò il suo cuore si arrampicò rapido su per l’apparato respiratorio fino alla gola. Solo per un lungo interminabile istante.

Poi iniziò a galoppare selvaggiamente.

L’uomo che aveva cercato di pedinare la stava fissando con aria poco amichevole.

Immerso nella pioggia, stava fermo immobile a pochi centimetri dal finestrino del passeggero.

Avanti, cosa stai aspettando? Chiuditi dentro, svelta!

Troppo tardi.

Agile come un felino, l’uomo s’infilò in macchina al suo fianco. Dimostrava una trentina d’anni circa: era parecchio alto, capelli corti e neri come la notte, splendenti occhi verdi e una carnagione chiara, pallida e smorta.

Caroline era terrorizzata, ma in parte affascinata e attratta da quello sconosciuto. Lacrime di pioggia percorrevano il volto scolpito da duri lineamenti.

«Non sei molto abile nei pedinamenti, vero?» La sua voce era profonda, cupa, nera.

«Diciamo che fiuto meglio le menzogne che le persone che le possiedono.» Neanche lei sapeva come aveva trovato il coraggio di pronunciare quelle parole, ma ormai era nel centro della pista e la musica era già cominciata da un bel pezzo.

Lo sconosciuto si voltò verso di lei e incollò gli occhi nei suoi. Caroline trattenne un sussulto e continuò la sua danza.

«So che lavori per Sheffield e so che tutti quegli uomini sulla cima di Mount Field non sono lì per una bonificazione del territorio.»

«Hai ragione sul fatto che lavoro per Sheffield, ma non vi è alcuna menzogna che circondi l’operazione Mount Field, ne sono certo.»

«Altre bugie», disse Caroline. Forse stava osando troppo.

«Suppongo tu sia una giornalista.»

«Esatta supposizione. E possiedo importanti amicizie all’interno della protezione ambientale.»

«Molto bene, riferisci a queste amicizie che possono dormire come bebè perché i lavori su mount Field sono sotto controllo.»

Lo sconosciuto sfoderò un surreale sorriso che la fece rabbrividire.

Non farlo…

…devo sapere.

«Che cos’è il progetto Elvoron

Il sorriso scomparve in un istante.

«Mi dispiace, signorina, mai sentito nominare.»

Caroline potè avvertire lo stridente digrignare dei suoi denti. Lo sconosciuto tese la mano destra verso di lei e le sue gambe si fecero molli come gelatina.

Mi sta per strangolare! Devo urlare ora, chiamare aiuto prima che sia troppo tardi!

La mano si fermò.

«Peter Young, piacere di averti conosciuto.»

Caroline si sentì stupida e sollevata al tempo stesso.

«Caroline Cassidy, piacere mio.»

La sua stretta era possente. I suoi occhi stavano sibilando: «Muoviti con cautela, biondina. Noi ti Vediamo.»

Peter Young uscì dalla vettura con la stessa agilità con cui vi era entrato e scomparve nella pioggia.

Caroline riprese a respirare e si accese un’altra marlboro.

Era tempo di verità.

Era tempo di chiamare Lanny Gordon, suo hacker di fiducia.

DUE ANNI DOPO

Il cameriere versò altro vino nei tre bicchieri facendo particolare attenzione a non far fuoriuscire neanche una goccia, poi si diresse verso un altro tavolo.

«Ci sta sfuggendo dalle mani», disse Oliver Waratah con un nervoso velo di preoccupazione. «Non siamo ancora riusciti a capire di che diavolo si tratta e abbiamo già sgretolato gran parte della cima della montagna.»

Le due ombre dall’altra parte del tavolo rimasero in silenzio, meditabonde.

Oliver trangugiò in un istante il vino, poi aggiunse: «È più grande di quanto pensassimo. I lavori potrebbero continuare per anni, senza contare il fatto che i media si stanno avvicinando ogni secondo di più alla verità. Si sono appollaiati sulle nostre spalle come un avvoltoio, pronti a colpire non appena falliremo. Si rende conto del rilevante costo che comporta mandare avanti il progetto?»

Un’ombra parlò: «Quanto pensi che sia grande, Oliver?»

Immenso, come la mia avida ambizione, spero.

Waratah si grattò la fronte. «Non ne ho idea. Per quanto ne sappiamo ciò che abbiamo scoperto fino ad ora potrebbe essere solo la punta dell’iceberg. Mano a mano che scendiamo con gli scavi la circonferenza si allarga.»

Le due ombre sorseggiarono la loro porzione di vino.

«Impressionante», disse la prima ombra. «E per quanto riguarda la regressione dell’età?» La sua voce traspirava impaziente curiosità.

Oliver abbassò lo sguardo. Il padrone lo stava bastonando, ne era consapevole.

«Ancora nessun caso. Se riuscissimo ad esportare parte della superficie x sarebbe molto più semplice. Potremmo analizzarla in laboratorio e forse raggiungeremmo qualche conclusione nelle ricerche, ma sembra intaccabile. Più dura del diamante. L’unica cosa che sappiamo per certo…» fece una pausa. I suoi occhi cominciarono a brillare come quelli di un bambino la sera della vigilia di natale.

«…è che, qualunque cosa sia, era incastrata nella roccia da molto, molto tempo e, senza ombra di dubbio, non appartiene a questo mondo.»

Silenzio.

«Non è la sua origine ad interessarmi, ma le sue straordinarie capacità.» L’ombra sorseggiò altro vino. «Il progetto va avanti. Disgregate l’intera montagna se necessario.»

«Come desidera.»

Oliver si alzò dalla sedia e tese la mano verso le due ombre.

«Signor Sheffield. Signor Young.»

Raccolse la sua 24 ore e uscì con passo svelto dal ristorante.

Qualunque cosa sia…non appartiene a questo mondo.

Non appartiene a questo MONDO.

Peter Young infilò la chiave nella toppa della serratura, aprì la porta ed entrò nel buio del suo appartamento. Si diresse verso l’angolo bar del soggiorno.

Il whisky scese violento giù per l’esofago fino allo stomaco. Dove ardente brucia.

Nell’oscurità due mani si arrampicarono sul suo volto spigoloso. Il suo corpo s’irrigidì, i muscoli sii tesero, pronti all’azione.

Poi udì la voce.

Una voce soffice, delicata, familiare.

Una voce che amava.

«Volevo farti una sorpresa, non mi dirai che ti ho spaventato?»

Peter si voltò e vide il volto di lei immerso nel buio della notte. Le circondò il collo con le braccia.

«Se vuoi spaventarmi devi impegnarti di più, piccola.»

«Com’è andata la cena?»

Peter alzò lo sguardo al soffitto.

«Avanti, puoi dirmelo. I lavori continueranno, vero?»

Annuì in silenzio.

«Potrebbe essere la più grande scoperta della storia», continuò lei. «Ma c’è qualcosa di sbagliato in ciò che stanno facendo lassù.»

Peter sbuffò. «Come fai a dirlo?»

«È solo una sensazione, ma so che ho ragione.»

«Andrà tutto bene, amore.»

Si avvicinò al suo viso, nel buio trovo le sue morbide labbra. Dolce sapore.

«Ho bisogno di una doccia.’ Le sussurrò all’orecchio primo di allontanarsi verso il bagno.

Lei si avvicinò alla finestra del soggiorno. Da quell’altezza poteva osservare le vivide e frenetiche luci della città nella sua vita notturna. Milioni di persone che si muovono a destra e a sinistra, innamorati che vanno a cena fuori, anziani che passeggiano sul marciapiede, giovani pronti a ballare per ore e ore.

Milioni di persone che vivono.

Caroline Cassidy ripensò alla sua strana, sinistra sensazione.

«È sbagliato», disse a se stessa nelle tenebre.

«Tremendamente sbagliato.»

SETTE ANNI DOPO

Come aveva potuto abbandonare tutto così?

La sua causa giornalistica, i suoi ideali, tutto ciò per cui aveva lavorato duramente.

La risposta urlò dentro la sua mente.

Per amore.

Amava Peter Young più della sua stessa vita, una causa accettabile per sacrificare la sua carriera.

Aveva cambiato le sue priorità. Fatto una scelta. Nonostante ormai sapesse da parecchio tempo il reale scopo del progetto Elvoron non avrebbe mai pubblicato il suo articolo. Ma aveva poca importanza. I lavori erano finiti da circa una settimana e il mondo ne sarebbe venuto a conoscenza presto. Non puoi nascondere un’intera montagna, o qualunque cosa sia.

Caroline rivolse lo sguardo al finestrino dell’elicottero su cui stava viaggiando. La terra, centinaia di metri più in basso, sfuggiva rapida alla sua vista.

Era diretta al campo base, alle pendici del monte, dove decine di scienziati si stavano spremendo le meningi per definire la Sua origine. Lei avrebbe dato il suo contributo da giornalista: un completo reportage riguardante la straordinaria scoperta.

Questi erano gli accordi. Il suo silenzio in cambio di un’esclusiva.

Peter era già lì sul campo da qualche giorno, ma sarebbe presto tornato in città per discutere di alcuni accordi con Sheffield.

Il telefono cellulare squillò nella sua tasca.

«Pronto.»

«Non crederai ai tuoi occhi, tesoro.»

«Peter?»

La linea era disturbata, ma Caroline avvertì comunque il febbrile tono di eccitazione nella voce del suo uomo.

«È gigantesco! Molto più di quanto ci fossimo mai aspettati!»

«Dovrei essere nelle vicinanze. Siete riusciti a capire di cosa si tratta?»

«No, neanche lontanamente, ma è meraviglioso! Risplende ed emana calore. È la vita, Carol. Ecco cos’è. È la vita stessa.»

Ora la sua voce era calda e confortante.

La vita.

«Non ci crederai, ma la Sua forma ricorda vagamente quella di un gigantesco…»

«Peter? Ci sei? Mi senti?»

La linea era caduta.

L’elicottero sorvolò una verde collina, poi giù per una larga pianura. Un’altra collina ancora.

Siamo vicini, lo sento.

L’elicottero oltrepassò la vallata volando verso un monte chiamato Bennet.

Lo sorpassò lateralmente. Le sue pale ruggivano sferzando la fragile aria.

Caroline si morsicò il labbro inferiore con ferocia e si strofinò gli occhi per vedere meglio.

Era lì, davanti a lei.

Immenso nella sua forma perfetta. Risplendeva di luce propria.

La sua bocca si spalancò talmente che per un attimo ebbe l’impressione che la mascella fosse sul punto di slogarsi.

Era stupefacente, bellissimo, inquietante.

Alieno

Capì immediatamente cosa aveva voluto dire Peter poco prima al telefono.

… un gigantesco…

Uovo.

Un uovo color oro.

Un uovo dalle dimensioni di una montagna.

Impressionante.

Terrificante

L’elicottero aveva raggiunto il campo base e si preparò ad atterrare.

Caroline rabbrividì.

È la vita, ecco cos’è. La vita stessa.

TRE GIORNI DOPO

Gerald Sheffield si rigirò il sigaro tra le dita un paio di volte prima di portarlo alle labbra.

La fiamma lo accese. Nel suo ufficio l’aria venne assalita da denso fumo. Lanciò uno sguardo alla persona seduta davanti a lui.

Occhi minacciosi. Furia nelle vene.

«Devo ammettere che dopo tutti questi anni di totale fiducia, mi sembra strano cominciare a dubitare della tua parola. Ma non posso farne a meno.»

«Hai fatto le analisi del mio DNA. Sai che non ti ho mentito.»

«Su questo non ci sono dubbi, ma spiegami perché non ci sono stati altri casi dopo il tuo.»

«A questo non ti so dare risposta. Quando mi sono rivolto a te sapevo saresti stata l’unica persona in grado di compiere un’impresa del genere. E non mi sono sbagliato. Forse con il tempo riusciremo a capire come sfruttarne l’immenso potenziale.»

Sheffield abbozzò una smorfia.

«Tempo? Guardami, Jack. Sono troppo vecchio per parlare di tempo. Ho bisogno di risposte ora

La sua voce venne interrotta dall’acuto squillo del telefono.

«Gerald sheffield.»

«Signor sheffield, Oliver Waratah desidera parlarle.»

«Grazie, Melanie. Passa la chiamata.»

Il pulsante per la modalità conferenza venne premuto.

«Signor sheffield!»

«Buongiorno, Oliver. Quali nuove dal campo base?»

«Abbiamo un problema.»

La sua voce era soffocata dalla tensione. Emanava terrore. Sembrava fosse quasi sull’orlo di piangere.

Piangere come un infante.

«Parla», disse Sheffield.

«L’uovo…» Oliver non riusciva a slegare il fitto nodo che gli si era formato in gola.

Nella stanza regnava il silenzio più assoluto. Unico rumore il respiro affannato di Oliver Waratah dall’altra parte della linea.

«… credo che si stia per schiudere!»

TRENTACINQUE MINUTI DOPO

Il frastuono assordante prodotto dalle pale dell’elicottero gli rimbombava nel cervello come un incessante monito d’allarme. Per quanto sapesse che il velivolo si stava spostando rapidamente non poteva fare a meno di vedere il mondo al rallentatore, come in una slow-motion.

Ogni singolo istante era prezioso. Per arrivare al campo base.

Per salvarla.

Lei.

L’unica cosa che amasse veramente, la donna della sua vita.

Aveva guardato dentro i suoi grandi occhi castani e il mondo aveva cambiato colore.

Dal grigio all’arcobaleno.

Carol, quando sono al tuo fianco riesco a vedere tutti i colori. Tutti!

E ora, forse, era già troppo tardi. Sì, perché l’uovo…

Cristo, l’uovo si stava schiudendo.

La sua mente viaggiò indietro nel tempo fino ad arrivare a parecchi anni prima.

Il passato era presente. Anni e anni fa.

Quando amava scalare le montagne, non distruggerle. Quando preferiva rifugiarsi nella solitudine dei picchi rocciosi. Quando il suo corpo era ancora quello di un settantatreenne.

Quando il suo nome era Jack Breed.

Le parole del giovane Tyler ritornarono con prepotenza e infilzarono la sua mente: «Non risvegliare ciò che la natura e il tempo hanno sepolto. Immenso esso è. Un paio d’occhi non bastano. Non bastano.’

«Come potevo sapere?» disse Peter tra sé e sé.

Improvvisamente apparve alla sua vista.

L’uovo. Aperto.

Cristo santo, che Dio ci protegga.

L’elicottero atterrò al campo base e Peter saltò fuori in un baleno. Nei suoi occhi il panico assoluto.

Devastazione e morte regnavano sulla terra macchiata dal sangue. Corpi privi di vita giacevano silenti nella nebbia di polvere.

Ti prego, signore.

Ti prego.

Cominciò a correre su e giù devastato dalla disperazione, cercando di evitare una verità che pareva ormai ovvia.

Non dare niente per scontato, Jack. Continua a cercare, confida nella forza dell’amore. Potrebbe essere ancora viva. Ha bisogno di te ora. È fragile, si sta lasciando andare.

Proteggila, curala, salvala!

Un corpo si mosse nella polvere.

Oliver Waratah stava agonizzando in un lago di sangue. Peter si chinò su di lui e avvicinandosi capì che gli rimaneva poco più di qualche minuto di vita.

«Peter…», disse Oliver in un lamento.

Non sapeva cosa rispondere. Nella sua mente, nei suoi occhi, nella sua bocca, nel suo cuore c’era solo lei.

«È mostruoso ciò che la montagna nascondeva. Niente di più grande… non ho mai visto nulla di così potente, distruttivo.»

Oliver stava delirando. Una delirante, terrificante realtà.

«Non puoi vedere la sua intera forma…Quattro paia d’ali.» La sua vita si spense in un gorgoglio, nei suoi occhi l’orrore cristallizzato.

Continua a cercare, dannazione!

Riprese a correre in preda al nervosismo, quando un tuono squarciò il cielo.

No, non di un tuono si trattava.

Il Suo verso.

Lacerante e potente. Affamato.

Era lontano, diretto verso le luci della città, verso l’innocenza della metropoli.

Un’improvvisa fitta alla testa lo fece cadere in ginocchio. Una memoria ancestrale prese vita nella sua mente.

Lui avrebbe dovuto essere il custode, colui che avrebbe dovuto mantenere la creatura dormiente nei secoli.

Il giovane Tyler lo era. Io sono solo un errore.

Un’immagine gli perforò il cervello.

Un disegno scolpito nella rossa roccia: un neonato che divora il mondo intero; un neonato alieno.

Elvoron, il Divoratore di Mondi, così lo chiamavano gli antichi.

Peter aprì gli occhi. «Elvoron», disse a denti stretti. Un nome che da anni tormentava i suoi sogni. Se solo avesse saputo… ma era tardi.

Si sollevò con fatica, sulla schiena il destino dell’umanità, ma i suoi pensieri erano ancora rivolti a lei. Il suo cuore la stava cercando, sapeva che era viva.

Poi la vide.

NELLA METROPOLI

L’uomo più ricco della città si versò altro whisky nel bicchiere, scartò il più prelibato tra i suoi sigari e lo fiutò.

Dall’ultimo piano del suo grattacielo, la vetrata della stanza svelava il panorama della giungla cittadina.

Il liquore scese avido nella gola, nutrendosi della sua vita. Nella parete sinistra era appeso un quadro di un pittore francese raffigurante una vecchia sorridente.

Il quadro cominciò a muoversi, poi si staccò dal chiodo e rovinò sulla moquette del pavimento.

La vecchia era la morte e non stava sorridendo.

Ghignava.

Ghignava soddisfatta.

Il Suo verso lo fece rabbrividire, ma solo per un istante. Il palazzo di fronte crollò formando un cumulo di macerie.

Rilassati, vecchio. Il tuo turno sta per arrivare.

Un artiglio gigantesco apparve tra la foschia di cenere e polvere.

Un’unghia dalle dimensione di una collina.

Gerald Sheffield si versò altro Whisky.

Rilassati, amico mio. Rilassati.

Poi chiuse gli occhi colmi di lacrime.

NELLA NEBBIA DI POLVERE

Il suo volto era candido, immacolato, perfetto.

La strinse forte a sé circondandola con le sue braccia muscolose.

Avrebbe dato la sua vita per poterle dire che l’amava un’ultima volta. Le baciò la fredda fronte con passione. Sapore di lei, di lacrime e gigli.

Odiò se stesso con tutta la sua forza per aver ucciso l’unica cosa che amava. Era tutta colpa sua, della sua sete di sapere.

Ma nel pianto decise di non concedersi più alcuna preoccupazione. Nella morte dovremmo trovare la pace, essere finalmente liberi. Impareremo a volare via. Nulla avrebbe più avuto importanza.

Tutte le sue inquietudini su chi avesse deposto l’uovo sarebbero cessate.

La morte è vita.

La vita non è nient’altro che polvere dispersa e trasportata dal vento. Attende la prossima folata per spostarsi.

Lei mi sta aspettando

Peter si sollevò in piedi e, tenendo ben stretto il corpo di Caroline tra le braccia, scomparve nella nebbia creata dalla polvere.

Tags: , , ,

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *